Melograno l’albero, melagrana il frutto… Oppure melograno entrambi.
L’ambiguità della nomenclatura delle specie arboree manda in crisi anche l’Accademia della Crusca. Ma noi in Calabria ce ne curiamo ben poco, perché lo sappiamo dai tempi più antichi che questo è il frutto del passaggio, della soglia, e sulla soglia non può che esserci sfumatura. Una sfumatura che qui si colora di rosso, il rosso rubino dei grani, incastrati perfettamente l’uno accanto all’altro, forse a rappresentare il sanguigno ordine dell’esistenza all’interno di quella che potrebbe sembrare un’innocua mela, dalla buccia particolarmente dura.
È la “mela granata”, che i Fenici hanno portato nel Mediterraneo, l’ultimo frutto ricco dell’autunno. È l’ingannevole dono per Core-Persefone, rapita da Ade, dio degli Inferi e costretta a vivere nel mondo dei morti per sei mesi all’anno, quei mesi in cui sua madre, la Dea Demetra, lascerà la terra nel gelo e nella sterilità.
È il frutto del passaggio dalla bella stagione ai rigori dell’inverno, dalla condizione di fanciulla a quella di sposa. Infatti Persefone e Demetra, con i loro culti nascosti, sono le Dee della Calabria meridionale, e ne sono testimoni i numerosi pinakes ritrovati presso Locri Epizefiri, doni votivi che recano i simboli di Persefone, il melograno e il gallo. Il gallo che canta al passaggio tra la notte e il giorno, il melograno che conduce dal mondo dei vivi a quello dei morti e viceversa.
E se gli antichi lo sapevano bene, quindi, che questo era il sacro simbolo della vita e della fecondità, noi uomini moderni abbiamo avuto bisogno della conferma della scienza: antitumorale, antiossidante, antibatterico, ricco di polifenoli, fitoestrogeni, vitamine e sali minerali. Ne imbottigliamo il succo, lo vendiamo, lo spediamo per il mondo, e tutti ce lo invidiano.
D’altronde la Dea lo sapeva bene, per questo ci sorride ancora là, sulla soglia, ammiccante e misteriosa, come il suo frutto.